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molti ornati discorsi. Non abbiamo documenti dell’incontro
delle persone, ma bene avvenne quello delle anime grandi nel-
l’ideale dell’arte, che Dante vide nella « verità della vita ».
| Giotto lasciò Roma che lo aveva erudito. Venuto forse
con Cimabue, rimase, come il suo maestro, vinto dalle forme
fiorenti alle rive del Tevere. Con lo slancio della sua natura
giovanile, apprese il bello stile che Pietro Cavallini diffon-
deva con mano sicura; e lavorò poi co’ compagni, anche
romani, ad Assisi, primo nell’ordine del lavoro e nel merito.
Gli affreschi che abbiamo designati per suoi, si mostrano
tali non solo per la intima bellezza del suo stil nuovo, ma
anche per il riscontro con le opere successive. Non è pos-
sibile confondere con altri il genio che sorprese a volo i
moti dell’anima. Cimabue che, come vuole la tradizione, di-
resse i suoi primi passi, non si intravede nelle sue forme
equilibrate, senza gigantesca possanza; l’arte bizantina che
ispirava la pittura italiana non si scorge più in lui, libero e
popolare; e l’arte romana sua educatrice, più che a ricerche
di monumentalità, dedicò alla grandezza e alla vivezza degli
affetti umani.