Full text: La scultura del Cinquecento (10, Parte 2)

432 II. — RIFLESSI MICHELANGIOLESCHI NELLA SCULTURA 
una statua, che con grazia sia accomodato, e posto, che si sia farla 
tutta ignuda, e scoperta »; ma quando nel Camposanto di Pisa copre 
coi lunghi camici le figure della Giustizia e della Pace, il suo panneg- 
gio, che a Padova, coprendo le forme magnifiche delle Virtù sulla 
tomba Benavides s’immedesimava con la vitalità di una gagliarda 
struttura, cade floscio, meschino, cosa morta nelle agili mani dello 
scultore, fattesi incerte, paurose. Con l’ideale estetico che aveva 
dato vita alle splendide Amazzoni del monumento Benavides, alla 
Terra del Bargello, nitida perla sgusciata dalla grande conchiglia 
del manto, alla vellutata dolcezza della Venere Anadiomene nello 
Studiolo di Francesco I, il vecchio scultore, colpito da terrori reli- 
giosi, rinnegò tutta la sua arte, che nella forma fine, delicata, nel- 
l’ornamento squisito, aveva trovato il suo appagamento pieno, la 
sua perfetta espressione. 
Già vedemmo il Cellini divenire, per dirla col De Sanctis, sempre 
più « divoto come una pinzochera e superstizioso come un brigante », 
ma pure, sino alla fine della vita, egli fu adoratore della bellezza del 
corpo nudo, come opera perfetta di Dio; l’Ammannati, che, meglio 
del Cellini, espresse nel nudo il raffinato ideale estetico del Cinque- 
cento fiorentino, alla fine della sua vita ne sentì rimorso, come se 
l’opera sua coronata di bellezza e d’eleganza fosse eccitamento al 
male e al peccato. Lo scultore rinnegava il suo passato, la sua arte 
squisita e, vittima del Concilio di Trento, vedeva con occhi d’uomo 
del Medioevo, lui, signore nella Rinascita. Quando nel Quattrocento 
si trovò una statua antica, il Ghiberti la palpava con la mano per 
trovarne, per sentirne la bellezza ignuda, felice che non si seppellis- 
sero più le Veneri come opere diaboliche; l’Ammannati, che sotto 
la carezza della sua mano aveva veduto fiorire i più deliziosi steli 
muliebri di Firenze cinquecentesca, sacrificò tutta la sua opera di 
bellezza sul rogo della nuova morale. Ai fauni sbrigliati tra gli zam- 
pilli della fonte di Nettuno, al fusto nitido della Terra, lucente fra 
i cristalli della roccia e il serto corallino, all’esile bellezza di Venere 
Anadiomene, il vecchio scultore appresta cappe invernali, manti 
verecondi, cocolle fratesche. Non gli riuscì, nonostante le suppliche 
al Granduca, di distruggere l’opera sua, che dal portico del Bargello, 
dalla piazza dei Signori, dallo studiolo di Francesco I, parla il sereno 
linguaggio della Rinascita.
	        
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